L’intervista a Federico Calcagno è lunga, ma se vi mettete comodi potete essere tra i primi a conoscere “bene” un famoso musicista del futuro prossimo. Questo è il nostro augurio a Federico.
Pronti, partenza, via…
D.: Quale molla ti ha fatto scattare la decisione di diventare musicista?
F.: Ci sono varie “molle”, mi è difficile individuarne una sola: da un lato la fortuna di essere nato in una famiglia in cui si è sempre ascoltata e suonata ottima musica — mio padre è pianista e insegnante di pianoforte in Conservatorio —, dall’altro la soddisfazione che scoprii nel suonare uno strumento musicale, in questo caso il clarinetto. Altre importanti “molle” sono l’istinto di curiosità che nutro verso il mondo dei suoni e la capacità di regalare all’ascoltatore un momento unico e raro, possibile solo nella dimensione del presente: l’improvvisazione.
D.: Come ti sei formato?
F.: Sono entrato nella classe di clarinetto del Conservatorio di Milano all’età di 12 anni, e ne sono uscito con il diploma nell’ottobre 2014, qualche mese dopo la maturità al liceo scientifico.
Ho avuto la fortuna di frequentare liceo e conservatorio assieme prima che i piani di studio cambiassero. Dopodiché ho ottenuto un diploma di II livello in clarinetto jazz nello stesso istituto e adesso ho quasi completato un master in clarinetto basso jazz nel Conservatorio di Amsterdam.
In giro per… AMSTERDAM
D.: Stai continuando la formazione ad Amsterdam, dove vivi anche l’esperienza dei Liquid Identities e dello Stab Freeze Collective…
F.: Amsterdam mi sta offrendo la possibilità di inserirmi in un ambiente internazionale, arricchendo il mio bagaglio culturale e non solo… mi permette di concentrarmi sulla musica che scrivo e nuovi progetti.
Liquid Identities è il nome del mio progetto principale in terra olandese: quintetto composto da clarinetto basso, sax alto, pianoforte, violoncello e batteria. E’ la band che recentemente mi da più soddisfazioni poiché esegue solo mie nuove composizioni e siamo stati vincitori del secondo premio del concorso internazionale Keep an Eye 2019.
Stab Freeze Collective, invece, è un collettivo di 15 musicisti incontrati al Conservatorio di Amsterdam provenienti da 7 diverse paesi (Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Grecia, Croazia, Israele), nato per la mia tesi riguardo all’improvvisazione guidata, Conduction e Soundpainting. Il collettivo prevede me nelle vesti di direttore. Le composizioni sono create al momento attraverso la direzione dei miei gesti e delle informazioni che trasmetto agli strumentisti.
Se interessati, nel mio profilo SoundCloud sono disponibili alcune demo e registrazioni live di entrambi i due progetti (https://soundcloud.com/you/sets).
Il clarinetto-tto
D.: Un accenno ai tuoi strumenti. Il clarinetto ed il clarinetto basso…
F.: Il clarinetto è lo strumento che ho suonato di più in passato, essendomi diplomato in musica classica e avendo imparato una parte di repertorio relativo alla storia dello strumento. Da quando ho scoperto il clarinetto basso, però, ho potuto trovare la mia voce più facilmente, forse poiché non c’è così molta storia come in altri strumenti (clarinetto, pianoforte, sassofono, batteria ad esempio). E da quando sono entrato seriamente nel mondo del jazz, il clarinetto basso è stato lo strumento più richiesto. Così ho iniziato a sviluppare uno studio approfondito e oggi è divenuto lo strumento principale col quale meglio esprimo la mia voce.
From another planet
D.: Parliamo del tuo disco… tre cose ci hanno subito colpito: il nome del gruppo (The Dolphians), la suite a Jim Crow e la dedica a Gazzelloni (di Dolphy)…
F.: Il nome è un diretto omaggio a Dolphy, e si può tradurre in italiano come i dolphiani, coloro che continuano a portare avanti le idee contenute nella musica di Eric Dolphy. Dolphians non è assolutamente da confondere con Dolphinians (dolfiniani, ovvero mutanti dalla forma di delfino).
La suite Jim Crow è stato forse il momento più impegnativo del disco, dal punto di vista dell’arrangiamento e della composizione: è l’unico brano dell’album in cui suoniamo in settimino, sebbene nell’introduzione sussistono vari duetti. La suite concilia materiale originale con materiale inedito di Dolphy pubblicato solo nel 1987 nel disco Other Aspects, la cui prima traccia si intitola appunto Jim Crow. Jim Crow è stato lo stereotipo di uomo nero inferiore ai bianchi, figura emblema della discriminazione razziale. Le leggi Jim Crow negli USA servirono a creare e mantenere la segregazione razziale in tutti i servizi pubblici, fino al 1965.
Ho voluto dedicare la suite a questo nome poiché penso tristemente che la figura di Jim Crow si sia evoluta nel corso degli anni e che abbia ancora oggi un significato contemporaneo.
Gazzelloni è una delle mie melodie preferite di Dolphy, però arrangiata con una metrica diversa (sette quarti).
D.: Oltre (Eric) Dolphy… ad esempio (Buddy) De Franco o (Tony) Scott… Quali altri riferimenti hai?
F.: Parlando di clarinettisti del passato adoro il suono di Tony Scott e la chiarezza della pronuncia di De Franco. Oggi ci sono grandi virtuosi come Anat Cohen, Don Byron, Eddie Daniels, Ivo Papasov che ammiro molto dal punto di vista strumentale. Parlando di clarinettisti bassi ho diversi nomi da elencare: in primis i miei insegnanti Joris Roelofs e Achille Succi, poi Michel Portal, Louis Sclavis, Rudi Mahall e Jason Stein.
Dietro, o dentro, questo disco c’è…
D.: Momenti di coinvolgente orchestrazione si alternano ad assoli interessanti. Cosa c’è dietro questo disco? Dimostrazione di una cultura pienamente assorbita o desiderio di sperimentare qualcosa di nuovo?
F.: Entrambi, direi… Abbiamo cercato di assorbire molto il jazz degli anni ’60 in riferimento alle pubblicazioni Blue Note parallele ad Out to Lunch come il primo album di Tony Williams (Lifetime, 1964), Dialogue e Components di Bobby Hutcherson, Point of Departure di Andrew Hill, Evolution di Grachan Moncour III, Destination…Out! Di Jackie McLean; e potrei andare avanti a citare altri album ma penso che questi siano abbastanza.
C’è anche un influsso improvvisativo più recente che è influenzato da molti musicisti improvvisatori che ho conosciuto qui in Olanda, come Michael Moore, Han Bennink, Kaja Draksler, ed altri. Credo che la musica di From Another Planet voglia comunicare un forte legame col passato –e quindi con la tradizione– ma al tempo stesso mostrare una direzione originale e contemporanea. I brani composti da me mostrano un tentativo di ricerca ed espressione della mia individualità più profonda. Difatti per me suonare jazz significa investigare, cercare, curiosare, e mai arrivare a un punto fermo, statico.
Le composizioni
D.: Le composizioni: quali e quanto sono tue?
F.: Cinque composizioni sono interamente mie. In ordine:
Respiri è la ballad del disco che ho scritto ispirandomi a un gioco di timbri tra clarinetto basso e contrabbasso, con l’aggiunta di altri due clarinetti al posto del sassofono o flauto. E’ anche ispirata a Something Sweet Something Tender contenuta in Out to Lunch.
Il tema del brano per clarinetto basso solo Solitary Journey for Bass Clarinet è influenzato dall’approccio ritmico della musica carnatica (proveniente dal sud dell’India), e dai modi utilizzati dal compositore Oliver Messiaen.
Rimangono poi la title track From Another Planet, e due movimenti della suite Jim Crow: Colored Only e The New Jim Crow.
D.: Per un genitore tutti i figli sono ugualmente belli e cari ma ti chiediamo di indicarci il brano, dell’album, che per te è il “must” e perché?
F.: Molto difficile rispondere poiché ogni brano ha la sua peculiarità. Se proprio dovessi, direi la traccia che da il titolo all’album: From Another Planet. Mi piace particolarmente poiché ha molteplici dinamiche e una forma tematica tradizionale (Rondò ABACABA), in aggiunta a un duetto ben riuscito tra sax alto e clarinetto basso.
The Dolphians
D.: Parliamo di chi ha suonato con te nel disco. Un gruppo di base e qualche partecipazione spot…
F.: Il gruppo di base, ovvero quello che presento ai live, è un sestetto con Gianluca Zanello e Luca Ceribelli ai sassofoni, Andrea Mellace al vibrafono, Stefano Zambon al contrabbasso e Stefano Grasso alla batteria.
I veri guest del disco sono i clarinettisti Michele Mazzini e Genovese in Respiri e Edoardo Casu al flauto, poiché questo strumento non poteva mancare in brani come Gazzelloni. Ho voluto disporre di diversi timbri strumentali per arricchire al meglio ogni traccia del disco.
D.: Un aneddoto divertente, che più ricordi, dei vari momenti di lavorazione del disco?
F.: Una volta registrato il materiale, ma non ancora masterizzato e pronto per essere pubblicato, ricevo le registrazioni in un disco. Di corsa torno a casa dallo studio per ascoltarlo. Lo inserisco nel lettore CD, chiudo gli occhi e ascolto impazientemente.
Arrivato al brano Gazzelloni, i miei piedi iniziano a muoversi da soli e quindi inizio a danzare da solo nel mezzo della stanza. Chi ha detto che il jazz non si balla?
Non a caso questo brano è uno dei nostri preferiti e lo teniamo alla fine della scaletta ai concerti.
La front-cover
D.: Siamo fissati per le front-cover… parlaci di quella di From Another Planet.
F.: La front-cover nasce dalla combinazione di due foto realmente scattate da Daniele Frediani nella mattina della seconda giornata di registrazione del disco, in un parco milanese vicino allo studio. La simmetria mi ha sempre affascinato, ed è per questo che ho voluto accoppiare due foto complementari che potessero riflettere ogni posizione, colore, ombra e volto dei musicisti stessi.
D.: Stai promuovendo la tua musica anche con dei concerti? Cosa suoni e su cosa risponde meglio il pubblico?
F.: Finora abbiamo avuto tre concerti a Milano appena dopo la pubblicazione del disco. In futuro spero di portare questo progetto in altre città e raggiungere più persone possibili, anche se al momento il fatto di vivere in un altro paese non mi aiuta molto. Un altro fattore negativo che sussiste nel trovare concerti è la grandezza della formazione: il sestetto è più difficile da ospitare in molti piccoli locali jazz.
Ai concerti alterniamo brani del disco con nuovi brani inediti, per mantenere la freschezza dell’interpretazione e improvvisazione. Nei live effettuati abbiamo avuto un riscontro molto positivo. Pubblico attento e caloroso, entusiasmato dall’interplay e dall’energia collettiva della band. Ho sperimentato che l’inatteso attrae molto l’attenzione dell’ascoltatore, e per inatteso intendo il modo creativo in cui il musicista organizza la musica (forma, dinamiche, soli, modulazioni metriche, ecc.).
Un jazz eterogeneo
D.: A proposito delle tue collaborazioni all’estero. Differenze tra il jazz in Italia e quello delle altre parti del mondo? Cosa possiamo importare per farlo diventare più forte?
F.: Vivendo ad Amsterdam sto respirando un’aria più internazionale, osservando che il jazz assume forme più eterogenee che in Italia. Il nostro paese è pieno di giovani musicisti jazz molto promettenti che purtroppo non riescono a realizzarsi pienamente.
Perché? Non c’è un’adeguata attenzione e supporto verso i giovani (e per giovani intendo under 30), manca una didattica più strutturata e approfondita nei Conservatori, un’apertura verso nuove tendenze stilistiche, un supporto economico da enti governativi verso l’arte e la creazione di progetti nuovi, ma sopratutto, un educazione musicale aperta a tutti per capire e ascoltare il jazz e la musica in generale.
Il jazz è divenuto un genere di nicchia pur essendo nato come genere popolare. Tutti i musicisti hanno bisogno di ascoltatori a cui esprimersi, e il più delle volte capita che il pubblico sia formato più da musicisti stessi che da non musicisti. Una cosa che dobbiamo fare per farlo diventare più forte è coinvolgere più pubblico giovanile possibile, e per far ciò abbiamo bisogno di una difficile cooperazione tra persone di diversi campi (musicisti, giornalisti, istituzioni, enti locali, ecc.).
D.: Cosa vuoi aggiungere a quello che non ti abbiamo chiesto?
F.: Ringrazio i lettori che sono arrivati a leggere fin qui!
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