Per la serie interviste: una speculare con… Delfini e Podestà.
I due chitarristi dei Sugarpie and The Candymen ci hanno concesso, rispettivamente, un intervista che per gioco, ma anche seriamente, abbiamo messo una di fronte all’altra, come uno specchio. Scopriamo così quanto sono legati e quanto sono diversi, un insieme di diversità che arricchisce il nostro jazz.
L’occasione ci è data dall’uscita dei loro due album (Sleeping Beauty e Foolish Little Dreams) e dall’importante collaborazione offerta da Claudio Ottaviano, contrabbassista dei Sugarpie. Grazie, Claudio!!!
Jacopo Delfini, che d’ora in poi contraddistingueremo con una J, e Renato Podestà, con una R, rispondono così alle nostre domande.
Come e quando hai deciso di diventare un musicista?
J.: Quando, a dodici anni, ho assistito al concerto di Paul McCartney al Forum di Assago. Qualcosa è cambiato dentro di me durante quella serata…ero diventato musicista prima ancora di saperlo!
R.: Nella mia testa fin da piccolo! In realtà ho deciso di studiare seriamente attorno ai 16 anni e fin da subito mi sono unito a gruppetti di gente molto più grande. Avere la loro approvazione è stata una grossa motivazione per me!
Quale è stato il tuo percorso formativo?
J.: Autodidatta fino a quindici anni, poi ho studiato con il bravissimo Carmelo Tartamella, e a ventitre anni mi sono laureato in chitarra jazz al conservatorio di Brescia
R.: Ho cominciato a suonare il pianoforte a 8 anni, e ho preso in mano la chitarra a 12, da completo autodidatta, per il solito motivo: trovare ragazze! (non ha funzionato molto bene all’inizio…) Più avanti ho preso lezioni private per qualche tempo, e recentemente mi sono laureato in conservatorio a Piacenza, ma continuo a considerare il palco il miglior maestro!
Sei uno dei componenti dei Sugarpie and The Candymen, parlaci della tua partecipazione al gruppo. Sei uno dei fondatori?
J.: Oh yes!
R.: I Candymen sono la mia seconda famiglia, sono ormai 10 anni che condividiamo la strada insieme! Come tutti i gruppi richiede lavoro e attitudine al compromesso, ma la ricompensa è alta. E poi con loro riesco a sfogare le mie perversioni arrangiative meglio che con ogni altro gruppo
Ed ecco a voi… Renato Podestà!!!
“Mi piace pensare all’ispirazione come a innaffiare una pianta: non la vedi crescere in tempo reale, e un po’ di tempo dopo che l’hai innaffiata, ti svegli e ha germogliato.”
Come e quando hai conosciuto —> Jacopo Delfini/Renato Podestà?
J.: Circa vent’anni fa. Giravo spesso da solo in cerca di concerti interessanti, e una sera mi sono imbattuto in Renato, che suonava in un club a Piacenza, con un progetto dedicato a Robben Ford (che io adoro). Ho attaccato bottone dopo la serata, e gli ho chiesto una lezione di chitarra per il giorno dopo, come scusa per conoscerci meglio… Tutto è iniziato da li!
R.: Ci siamo conosciuti poco più che ventenni in un locale della zona, io suonavo con una band tributo a Robben Ford (bei tempi…) e Jacopo era tra il pubblico. Abbiamo cominciato a suonare insieme poco dopo, prima in duo e poi in altre formazioni più grandi. Abbiamo un sacco di background comune, ma anche abbastanza differenze per mantenere il rapporto interessante e fruttuoso!
…questo invece è Jacopo Delfini!!!
“Penso sia importante tenersi allenati per non perdere l’abitudine a cercare di cogliere la bellezza nascosta nelle cose che ci circondano. Una di esse è lo scorrere dei fiumi della nostra vita.”
Chi dei due ha deciso per primo di fare un lavoro discografico al di fuori del gruppo?
J.: L’idea è maturata quesi contemporaneamente circa tre anni fa, ma la mossa di cominciare a registrare l’ha fatta prima lui!
R.: Credo io!
Iniziamo a parlare del tuo disco… E’ la prima volta che componi e guidi una formazione per un tuo progetto?
J.: Ho composto e guidato formazioni per una miriadi di situazioni, ma mai per un progetto che esce interamente a nome mio.
R.: Suono in trio con Gianluca Di Ienno e Roberto Lupo da più di dieci anni, ma non avevo mai pensato che fosse “il mio progetto”. Ma dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti nell’autunno 2016 sono tornato con una gran voglia di incidere qualcosa e loro mi sono sembrati la scelta più ovvia, sia per il sound che avevo in mente sia per le affinità musicali con loro.
Che tipo di musica proponi e cosa vuoi dirci con esso?
J.: E’ una musica che si fa allo swing tradizionale di Django Reinhardt, come suggerisce anche la formazione. Cerco di trasmetterte il mio modo di sentire la musica (e, più in grande, il mondo) attraverso questo particolare linguaggio musicale. Avrei potuto sceglierne altri, ma in questo periodo della mia vita mi esprimo al meglio con queste sonorità.
R.: Per dirla con qualcuno che l’aveva già capito tempo fa, “la musica non esprime altro che se stessa”, quindi faccio molto fatica a dirti cosa voglio esprimere. Quello che posso dirti è che, pur essendo un lavoro identificabile come jazz mainstream, ho cercato ispirazione da tante fonti, e ho cercato di essere il più possibile me stesso. E una cosa che probabilmente mi accomuna con Jacopo è l’aver cercato la “bellezza”, per quanto vago il termine sia, nascosta in tutte queste fonti, senza necessariamente cercare la “novità”. Credo che se l’elemento di novità stia già nel dire qualcosa nel tuo modo, se sei onesto, e sia una conseguenza della tua ricerca più che il fine.
Le composizioni: quanto sono tue e quanto ti rispecchiano?
J.: Sì, tranne la cover di Nuages di Reinhardt i brani sono tutti miei. Mi rispecchiano totalmente, sono una trasposizione di emozioni, immagini, frammenti di vita vissuta.
R.: Per questo disco ho scritto un sacco di materiale e ho finito per tenere solo un pezzo mio. Ma ho cercato di mettere del mio anche nei brani non miei; prima di tutto andando a cercare brani non triti e cercando di trattali in modo fresco. Sicuramente ci sono dentro parecchie mie influenze e parecchie mie inclinazioni, quella più groovy a quella più cupa.
I brani sono nati attraverso un processo di studio/di riflessione, coincidenze ispirative o, ancora, improvvisazioni spontanee in studio di registrazione, queste ultime classiche per il jazz?
J.: Ogni brano ha una sua storia, ma in genere tutti questi tre aspetti sono mischiati insieme: c’è sempre un’ispirazione tratta dalla vita emotiva, poi un lavoro successivo per dare una forma all’idea iniziale, e poi in studio succede sempre qualcosa di imprevedibile. L’improvvisazione è un aspetto essenziale in questa musica.
R.: Mi piace pensare all’ispirazione come a innaffiare una pianta: non la vedi crescere in tempo reale, e un po’ di tempo dopo che l’hai innaffiata, ti svegli e ha germogliato.
Generalmente scrivo un sacco di cose – temi, arrangiamenti, idee varie – in tempi dolorosamente lunghi, poi magari butto via tutto e qualche giorno dopo arriva una buona idea quasi di botto. Ecco, credo che quell’idea sia inconsciamente figlia dell'”innaffiatura” dei giorni precedenti!
Per un genitore tutti i figli sono ugualmente belli e cari ma ti chiediamo di indicarci il brano, dell’album, che per te è il “must” è perché?
J.: Sleeping beauty, la traccia che suono con una sola chitarra, senza band. Mi commuove quando la sento, perchè richiama quello che prova un padre quando suo figlio nato da poco gli si addormenta accanto.
R.: Che fatica… Ovviamente ho un particolare attaccamento al mio “Bolero”, ma “Blood Count” è un pezzo di una tale bellezza, a livello di scrittura, che lascia storditi. E quella che sentite sul disco è la prima e unica take…
Ora parlaci dei musicisti, dei tecnici e di quanti altri hanno collaborato a concretizzare il tuo disco.
J.: Ho collaborato con Michele Frigoli (chitarra), Claudio Ottaviano (contrabbasso) ,Mauro Negri (clarinetto), Andrea Aloisi (violino) e Alessandro Carreri (Basso). Tutti grandi musicisti e grandi persone. I tecnici audio sono Claudio Ottaviano e Renato Podestà, mentre il mastering è stato fatto presso i Ferber Studios a Parigi.
R.: Gianluca Di Ienno è un musicista straordinario dotato di un orecchio strabiliante. E adoro il suo essere contemporaneamente dentro e fuori il mainstream, c’è sempre un elemento di novità e di freschezza nel suo modo di suonare. E con Roberto ho una telepatia che non ho con nessun altro batterista; ci sono passaggi nel disco che sembrano scritti e sono completamente improvvisati, frutto di anni di palchi insieme. Di Sandro Gibellini non potrò mai parlare bene abbastanza. E’ stato un mentore per me e una delle ragioni se mi sono avvicinato al jazz. Registrare con lui per me è realizzare un sogno che avevo a vent’anni! Devo anche ringraziare tutto lo staff di Indiehub (Andrea Dolcino, Stefano Giungato e Gabriele Simoni) per aver catturato così bene il suono della band e Alberto Callegari di Elfostudio per aver fatto un mastering così bello e rispettoso del mix, cosa rara di questi tempi.
Siamo fissati per le front-cover… parlaci della tua.
J.: Sleeping Beauty, oltre che un bimbo che dorme, vuole significare che la bellezza è silente, sfuggevole, nascosta. La bellezza è il casolare in rovina in mezzo alla campagna, la pioggia in una radura di un bosco, il campanile che spunta illuminato dagli argini nelle sere di primavera…Tutte cose che non ci chiamano, non invadono la nostra vita, non ci cercano.
Penso sia importante tenersi allenati per non perdere l’abitudine a cercare di cogliere la bellezza nascosta nelle cose che ci circondano. Una di esse è lo scorrere dei fiumi della nostra vita.
Come quello che vedete sulla mia front-cover…
R.: La foto è di Silvia Berzero e Stefano Callea, che hanno collaborato anche a tanti scatti per Sugarpie.
Mi piace l’atmosfera vagamente nostalgica che si respira, eravamo in un teatro a Como con questa luce strana e d’improvviso “Foolish Little Dreams, che era un titolo provvisorio al momento, ha acquistato un altro senso!
Come stai promuovendo il disco?
J.: Per il tipo di musica puntiamo molto sul live, sulla freschezza dell’esperienza e sull’incontro umano. Poi è anche un piacere vedere che l’album sta ricevendo una calorosa accoglienza da parte dei giornalisti, per dirvene una, qualche settimana eravamo in diretta nazionale RAI. Ma ripeto, la cosa che più mi preme, è arrivare dritto al cuore e in questo nessun mezzo è potente come un concerto live.
R.: Non abbastanza!
Un aneddoto divertente, che più ricordi, dei vari momenti di lavorazione del disco?
J.: Durante il brano Roulette, un fast, Claudio mi incitava facendomi impazzire…Take dopo take alzava la tensione, mi diceva di immaginarmi al casino, mentre punto tutto alla roulette, la casa, le chitarre, la famiglia, la vita!….e’ stato molto divertente, penso che il modo in cui ho suonato rifletta questo spirito di momentanea follia!
R.: Qualunque cosa io racconti non potrà mai avvicinarsi agli aneddoti che racconterà Jacopo, lo so già!
Quale è stata l’accoglienza da parte degli altri componenti dei Sugarpie al disco?
J.: L’hanno tutti apprezzato, mi ha fatto piacere.
R.: Shhh, non lo sanno ancora!!!
Sleeping Beauty e Foolish Little Dreams sono due dischi molto distanti tra di essi, due dischi che certamente vi arricchiscono dal punto di vista esperienziale. Cosa possiamo aspettarci per il futuro?
J.: Per dirla con John Lennon, Tomorrow never knows.
R.: Prima di tutto voglio portare in giro questo disco! E poi sto già pensando al prossimo, ce n’è già una metà che aspetta solo di essere registrata.
Cosa non ti abbiamo chiesto ma che tu vuoi raccontarci?
J.: Come mi sento ora che il disco è uscito: diverso, in cerca di nuove strade, migliore.
R.: Nulla!
Per la serie interviste
Renato ci saluta in questo modo…
…mentre Jacopo in quest’altro.
Potete ascoltare, nelle rispettive schede sul nostro sito, le preview di Spotify di Sleeping Beauty e Foolish Little Dreams, e, li ascolterete meglio, acquistando le versioni fisiche dei dischi.
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