Simone Di Benedetto è un giovane compositore e contrabbassista italiano, improvvisatore, narratore d’ immagini sonore. Lo abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo primo
album, Red & Blue, edito per la label Improvvisatore Involontario.
Red & Blue, il tuo primo album da compositore, da dove nasce il titolo, quali sono le suggestioni
che hanno ispirato la stesura dei brani?
Grazie a Red & Blue ho avuto l’occasione di confrontarmi con la mia visione del jazz e la tradizione jazzistica, e questo per me è stato molto importante. Quando si parla di tradizione in ambito jazzistico, si è sempre su un terreno scivoloso: da un lato si rischia di passare per “nostalgici”, dall’altro per musicisti che fanno “altro” perché non conoscono abbastanza le origini del jazz.
Talvolta si dà più importanza al voler dimostrare di conoscere un linguaggio, che al proporre
qualcosa di proprio.
Penso che il disco si divida in due facce, una “Red” ed una “Blue”. Da un lato la tradizione del jazz europeo ed in particolare scandinavo, in brani come Ballata scandinava, Fiordi, Homage a Haydn o ancora Shardik; dall’altro al free jazz e le sue derivazioni, con autori come Ornette Coleman, Keith Jarrett o l’Art Ensmble di Chicago per brani quali Bei denti sto demone, The big wuedra in the sky, Red&blue e Just say it. In quest’ultimo brano, ad esempio, l’ispirazione è stata il blues arcaico, di cui
Ornette aveva riportato alla luce sonorità che durante l’era be-bop erano passate in secondo piano.
Quali brani, secondo te, meritano attenzione speciale e perché?
Non saprei dire quali meritano un’attenzione particolare, posso dire a quali sono più legato.
Ballata Scandinava è un brano molto vecchio, che scrissi dopo un primo viaggio in Svezia diversi anni fa: è una melodia popolare svedese, di cui avevo trovato una registrazione che mi aveva affascinato, e che ho deciso di ri-armonizzare seguendo i molteplici spunti che una melodia così semplice forniva.
The Big wuedra in the sky è un omaggio a Jarrett e alla mia adolescenza, un brano che mi rende felice tutte le volte che viene suonato.
Un altro brano a cui sono molto legato, l’unico non originale del disco, è Vashkar di Carla Bley: ricordo che comprai il disco Jaco quando avevo circa 14 anni, all’epoca suonavo il basso elettrico ed ovviamente… stravedevo per Pastorius! Rimasi molto colpito dalla traccia, la prima del disco. Negli anni ne ho riscoperte molte versioni, lo ho studiato a fondo e ho deciso, dopo averlo sentito dal vivo suonato dalla stessa Carla Bley, di provare a darne una mia versione, partendo dalle tante che avevo trovato negli anni.
Ci parli dell’incontro con gli altri musicisti?
Achille Succi e Andrea Burani sono musicisti più grandi di me e ho pensato di coinvolgerli per imparare dalla loro esperienza. Achille è un musicista formidabile e poliedrico, affermato a livello internazionale, e Andrea per me è sempre stato un po’ un mito. E’ stato il batterista del mio primo insegnante che da ragazzo vedevo come “inarrivabile”! oltre ad essere un grande conoscitore
della tradizione a 360 gradi, e sapevo che poteva aiutarmi nello studio che stavo affrontando.
Giulio Stermieri, che ormai si sta affermando nella scena nazionale come uno dei migliori giovani pianisti in circolazione, è in realtà un amico di vecchia data. Ci siamo conosciuti alle superiori ed è stato il primo musicista con cui ho cominciato a suonare jazz. Negli anni abbiamo sempre affrontato tanti repertori e sfide nuove insieme, per cui non avevo dubbi sul fatto che un musicista e una persona come lui avrebbe saputo cosa stavo cercando musicalmente in quel momento.
Un giovane musicista come vive oggi la scena jazz italiana?
Bianco e nero.
Da un lato c’è una scena molto viva e ricca, piena di stimoli e di musicisti interessanti con cui lavorare.
Dall’altro, per motivi culturali, economici e forse anche politici, temo non ci sia la giusta attenzione e il giusto spazio. Le opportunità non mancano, ma a volte sono poche, soprattutto per una piazza così ricca di proposte.
Da compositore, qual è il tuo rapporto con l’improvvisazione?
Penso che la risposta migliore a questa domanda sia la mia tesi di laurea, che ho intitolato appunto, “Composizione e improvvisazione – due facce della stessa medaglia”.
Personalmente, credo che l’improvvisazione e la composizione siano la stessa cosa, fatto salvo per il fattore tempo: un compositore può impiegare settimane o mesi (nel caso di Beethoven, sappiamo anni) per comporre anche pochi secondi di musica; l’improvvisatore deve comporre in tempo reale.
Quando scrivo e quando improvviso non penso in maniera diversa, cerco semplicemente di sfruttare il fattore tempo a mio vantaggio in entrambe le situazioni, “ragionando” di più quando scrivo e seguendo di più “la pancia” quando improvviso. Ovviamente il fattore tempo non è irrilevante e condiziona fortemente le scelte operate, ma le tecniche che si utilizzano sono spesso simili se non identiche. Il principio intervallare che guida improvvisatori come Ornette Coleman o Wayne Shorter non è per esempio lontano dal modo di pensare una serie dodecafonica, specie
nel caso di Webern.
Un altro aspetto importante risiede nel fatto che, nel jazz, compositore ed esecutore coincidono in un’unica figura, mentre nell’ambiente classico queste spesso sono divise. Non bisogna dimenticare che molti grandi compositori del passato erano formidabili improvvisatori come Bach, Mozart, Chopin o Liszt. Nel ‘900 molti compositori “classici” si sono avvalsi di tecniche improvvisative. Cage
nella scelta del materiale (aleatorietà), Boulez o Stockhausen lasciando agli esecutori un margine di manovra arbitrario. Molto spesso l’universo sonoro che si andava a creare era simile a quello dei musicisti della New Thing che stava prendendo vita a New York.
Una parte consistente del tuo lavoro artistico è rappresentata da collaborazioni con attori, narratori e festival delle parole. Come coniughi questi due mondi?
Musica e parola sono sempre state unite, la musica nasceva come accompagnamento alla danza ed alla poesia, per cui, da un certo punto di vista, per me è qualcosa di abbastanza “ancestrale e naturale”. Lavorare con attori poi mi dà spunti che difficilmente troverei lavorando solo con musicisti, e anche questo è un aspetto molto affascinante delle collaborazioni che sto portando
avanti.
Molto spesso ho grande libertà nella scelta dei materiali da utilizzare. Questo mi permette di muovermi tra l’improvvisazione e la scrittura. Con alcuni attori scrivo da zero le musiche per gli spettacoli; con altri, invece, avendo concordato già prima le linee generali della narrazione, creiamo performance in cui improvviso liberamente. È un lavoro che mi piace molto a cui mi dedico da già 5 anni, e che spero possa durare ancora a lungo.
Progetti futuri?
Sono molto felice perchè in questo momento ho la possibilità di suonare tanta musica, differente e con vari artisti, che mi permette di avere sempre stimoli nuovi. A novembre uscirà il primo disco di un altro quartetto di cui faccio parte, Archipelagos, per l’etichetta UR records.
A febbraio 2019 uscirà il disco in solo, registrato quest’estate in Danimarca, e per ultima la registrazione del secondo disco del progetto DST, in duo col clarinettista Alberto Collodel.
Inoltre, ci sono alcuni progetti giovani che spero possano vedere la luce l’anno prossimo, tutti
con musicisti stimolanti e con cui sono felice di poter condividere idee ed esperienze.
Vi ricordo che potete acquistare l’album Red & Blue in tutti i migliori negozi di dischi e store digitali.
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