“Thelonious Monk with John Coltrane” è un disco uscito nel 1961, registrato nel 1957, e che segna, a mio avviso, un passaggio e un incontro epocale nella storia del jazz moderno.
Da un lato abbiamo Coltrane, detto “the trane” – assonanza con “the train” ovvero il treno per la sua tecnica e la sua velocità, e dall’altro Thelonious Monk, già in quegli anni, famosissimo pianista e compositore e che aveva segnato e contribuito al successo di numerose stelle del jazz.
Per me due opposti che si uniscono: il talento e la tecnica irruenta di John Coltrane che, nel brano qui suggerito e prima traccia del disco, esegue il tema partendo dalla delicatezza e dall’aderenza allo stesso, inserendo via via richiami del suo fraseggio complesso.
Un fraseggio che proprio nel 1957 inizia ad esplodere.
Quasi un pianto malinconico, una preghiera notturna, che si alimenta della passione e della foga della stessa preghiera fino a scoppiare in un pianto scrosciante, come una pioggia liberatoria di note. La pioggia di note che incontra il caos ordinato di Monk, un genio per molti anni incompreso e che ancora oggi, nel 2018, incuriosisce tanti e pone sul chi va là. L’anti-tecnica che però si esprime con unicità, un po’ come un’arcobaleno scomposto di note e dipinte da Picasso: un fenomeno naturale, che cerchi di spiegare ma di cui perdi il controllo perché nel suo fascino ti fa tornare bambino, umile e semplice ascoltatore di qualcosa di talmente unico che diventa a volte segreto.
Theloniuos Monk ebbe un grande impatto su John Coltrane: prese il sassofonista con sè e coi suoi modi criptici lo istruì e lo stimolò, anche su questioni tecniche del sassofono. Si narra che proprio da questo incontro, Coltrane iniziò a sperimentare gli armonici sul sax e nuove posizioni per ottenere nuovi suoni. Suoni che, ad esempio, ritroviamo in un emblematico brano, “Harmonique” – edito in Coltrane Jazz, di cui abbiamo parlato nell’articolo “I’ll wait and pray“, sulla mezza età di Trane.
Ruby, my dear!
“Ruby, my dear” è una ballata di Thelonious Monk, un brano straordinario con sonorità molto particolari che necessitano di qualche ascolto più approfondito per essere assimilate e diventare familiari.
Se da un lato “Round Midnight”, pur essendo una ballata che annovera Monk fra i compositori e se ne sente una maggiore scorrevolezza nell’ascolto, tutto sommato, “Ruby, my dear” si alterna fra una bellissima melodia e sorprese armoniche, come solo Monk seppe fare.
Il brano fu composto e registrato già molti anni prima (1947), è dedicato al primo amore del pianista.
Ritengo la versione con Coltrane la più significativa, sia per la sua esecuzione che per l’incontro fra due giganti del genere.
Come dicevo, Coltrane sussurra il tema per poi irrompere nel solo: una maggiore consapevolezza che i giorni con Monk hanno portato il sassofonista a voler osare di più, a togliere il freno a quel treno che fino a quegli anni era tutto sommato solo in partenza. La sezione ritmica, come già usa fare Monk, crea un tappetto discreto ma granitico sul quale Coltrane, scorrevole, esplora in lungo e in largo le possibilità improvvisative del brano, mentre Monk aleggia con i suoi accordi eterei riuscendo ad accompagnare e sorprendere allo stesso tempo.
Ping – Pong
Il brano continua in questa alternanza fra i due giganti, come una pallina da ping-pong… quella che vide Monk e Coltrane impegnati in ben 60 partite, solo una delle quali vinte da Coltrane…!
Dopo il solo di Coltrane troviamo quello di Monk, con il suo carattere inconfondibile: fraseggi esatonali e richiami personalissimi sulle armonie, come successioni e scale che ne sono diventate un marchio di fabbrica. In sottofondo si sentono i rantoli di Monk, dettaglio che a me ha sempre appassionato di lui ma di tutti i musicisti in generale, che rendono più viva e “vicina” la musica sopratutto se registrata in studio!
Il brano si conclude con un tema finale affidato nuovamente al sax, che va rompendosi come uno specchio in tantissimi frammenti, che riflettono il genio dei due artisti, e si intrecciano con poche ma caratteristiche note dei due in una chiusura, come è la musica di Monk, consapevolmente “sbagliata”.
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